La vertenza ex Ilva in questi lunghi dieci anni, dal sequestro preventivo dell’area a caldo del 2012, ha visto modificare più volte le possibili soluzioni individuate dai vari governi che si sono succeduti attraverso decreti salva Ilva e modifiche contrattuali con la multinazionale che, di fatto, hanno cambiato gli obiettivi e soprattutto i tempi di un processo di trasformazione che i lavoratori e i cittadini si sarebbero aspettati nel breve periodo.
Pertanto, siamo di fronte ad una situazione che rischia il collasso sociale ed ambientale per scelte politiche che hanno consentito ad una multinazionale di controllare un sito d’interesse strategico per il Paese, determinando una situazione che in questo momento penalizza i lavoratori e i cittadini della provincia ionica e dell’intero tessuto produttivo del mezzogiorno e d’Italia.
È del tutto evidente che la crisi dell’ex Ilva sia arrivata ad un punto di non ritorno che tenderà ad aggravarsi se non si avrà la capacità di affrontare seriamente le tante problematiche che attanagliano lo stabilimento siderurgico, a partire dallo stato comatoso in cui versano gli impianti per l’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria e che per ripartire necessiterebbero di ingenti risorse e interventi strutturali che ormai mancano da tempo.
La produzione è sostanzialmente ferma per volontà dell’amministratore delegato che con il blocco di alcune attività di manutenzione sugli impianti sta determinando una situazione di criticità mai vissuta prima d’ora e che viene utilizzata come arma di ricatto nei confronti del governo.
Il governo Meloni, oltre alle roboanti dichiarazioni stampa, pare abbia ceduto ai ricatti di Arcelor Mittal dotando alla multinazionale un prestito ponte necessario a sanare le difficoltà di liquidità finanziaria della società, rinviando di ulteriori 18 mesi il cambio della governance attraverso l’intervento pubblico con l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale di acciaierie d’Italia al 60%.
Di fatto è, attualmente, tutto rinvitato insieme alla possibilità di intervenire sul piano industriale e sul processo di transizione ecologica determinando una condizione di assoluta incertezza non più sostenibile, soprattutto se dovesse confermarsi il mancato dissequestro degli impianti.
Infatti, le prescrizioni previste dall’autorizzazione ambientale termineranno il 23 agosto 2023 e in assenza di un nuovo piano ambientale potrebbe non essere sufficiente per il dissequestro degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico.
Per tali ragioni la Fiom CGIL ritiene necessario un intervento pubblico che abbia un indirizzo chiaro per l’avvio di un processo di trasformazione della produzione di acciaio, anticipando i tempi con un nuovo piano ambientale che vada nella direzione di una giusta transizione ecologica, e l’ applicazione delle linee guida della Valutazione di Impatto Sanitario Preventivo.
Il compito del sindacato, in una vertenza complessa come l’ex Ilva, diventa determinante se riesce ad andare oltre i confini della fabbrica, provando a costruire un Patto con la città e con i comuni della Provincia ionica, insieme alla Regione Puglia, con l’obiettivo di traguardare una transizione ecologica e sociale che possa porre fine a questa inutile e dannosa contrapposizione tra salute e lavoro.
Il 28 dicembre ’22, il consiglio di fabbrica dei RSU di Fiom, Uilm e Usb ha convocato le istituzioni locali e regionali per provare a fare fronte comune e unire gli interessi collettivi di un territorio stanco di subire scelte calate dall’alto e provare a costruire una mobilitazione a Roma, presso Palazzo Chigi, con un chiaro messaggio:
No al prestito ponte, si ad un intervento pubblico per una giusta transizione ecologica e sociale.
Bisogna provarci, bisogna tornare protagonisti del nostro futuro. Insieme possiamo farcela.
Taranto 26.12.2022
Segretario Generale Fiom Cgil Taranto
Francesco Brigati