L’intervista a Loris Scarpa. responsabile siderurgia per la Fiom Cgil, sul Corriere del Mezzogiorno
Alla vigilia del nuovo incontro a Palazzo Chigi sul futuro dell’ex Ilva, il coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil, Loris Scarpa, mette sul tavolo le richieste del sindacato: fine delle contrapposizioni, certezze sulla transizione ecologica, e un chiaro impegno dello Stato. L’obiettivo è evitare che i lavoratori restino incastrati in una lunga agonia produttiva senza prospettive.
Siamo alla vigilia di un nuovo passaggio al tavolo della vertenza. Qual è la vostra aspettativa?
«Che si superi finalmente una logica di contrapposizione totale. Nessuno, né lavoratori né cittadini, può continuare a subire. Il punto di partenza è la condivisione di un obiettivo: la decarbonizzazione. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma serve chiarezza: tempi certi, investimenti, numeri. Il primo agosto a Palazzo Chigi ci aspettiamo risposte precise».
Lei parla di decarbonizzazione, ma a che condizioni?
«Va fatta con una transizione rapida e sostenibile. Passare dagli altoforni ai forni elettrici è fondamentale, ma bisogna evitare che si trasformi in un processo eterno. Per questo servono garanzie economiche e politiche. Siamo stanchi di restare appesi all’incertezza. I lavoratori non possono vivere in cassa integrazione a vita, e Taranto non può restare una città invivibile».
Che ruolo deve avere lo Stato in questo processo?
«Determinante. Senza capitale pubblico e controllo pubblico, la transizione non si fa. Non vogliamo escludere i privati, ma è evidente che serve una guida pubblica. Finora si è fatto l’opposto: Da pubblica, passata a privata, e poi di nuovo una privatizzazione con soldi pubblici. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti».
Il piano parla di dodici anni per la transizione. Troppi?
«Quel numero è stato rivisto. All’ultimo incontro si parlava di sei, sette anni. Ma il punto non è solo il tempo: bisogna definire le tappe, rendere disponibili le risorse e valutare la reale capacità produttiva dell’impianto. Oggi non si superano nemmeno i due milioni di tonnellate da altoforno. Non so quando si arriverà a sei milioni. Parliamo di una realtà industriale che si sta fermando per carenza di risorse, non espandendo».
E a chi chiede di chiudere subito lo stabilimento?
«Rispondo: Il capitale chiude le aziende dopo averle spremute, non i lavoratori e non per decisione popolare. I danni ambientali e di salute causati dalla mala e fraudolenta gestione rimangono anche spegnendo l’interruttore, ma senza la continuità produttiva non si possono realizzare né la decarbonizzazione né le bonifiche purtroppo ci sono già esempi nel paese e in più, ci sarebbe un tracollo occupazionale che graverebbe anche questo sulla città e dove ci sono gli altri stabilimenti. Serve correre verso la decarbonizzazione è l’unica strada che tiene tutto insieme dando una prospettiva positiva.
Nel dibattito, però, colpisce il silenzio dei leader nazionali. Come lo spiegate?
«È lo stesso silenzio che registriamo sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. La politica, di qualsiasi schieramento, è lontana dai problemi concreti e del vivere dei cittadini. Ora nessuno si espone. La politica deve uscire dalla logica della campagna elettorale permanente e affrontare i problemi veri. Perché se continua a lasciarci soli, il rischio è che vinca sempre il più forte, e i lavoratori subiscano scelte contrarie al progresso comune.