Con l’attuale gestione abbiamo registrato solo record in negativo: produzione al minimo, manutenzioni ridotte all’osso, aumento degli inquinanti, uso sproporzionato della CIG. Le mancanze sono sotto gli occhi di tutti: bisogna ripartire dai capisaldi dell’accordo del 2018
Sono trascorsi 5 anni dall’accordo del 6 settembre del 2018: da allora sono cambiati 4 governi e i rispettivi ministri che hanno guidato il Ministero dello Sviluppo Economico, adesso chiamato Ministero delle imprese e del Made in Italy, e abbiamo dovuto confrontarci con modifiche contrattuali e decreti d’urgenza senza che ci sia mai stato un confronto con le organizzazioni sindacali in merito alla prospettiva industriale dello stabilimento siderurgico di Taranto.
È del tutto evidente che, per ciò che concerne l’attuazione del piano industriale e di quanto previsto dall’accordo sottoscritto in sede ministeriale il 6 settembre 2018, nulla è stato portato a termine, a partire dal rifacimento dell’altoforno n. 5 che rimane l’unica garanzia per consentire non solo un reale aumento della produzione ma soprattutto un futuro per la siderurgia e per migliaia di lavoratori che attendono, ormai da troppo tempo, una svolta decisiva che inevitabilmente con l’attuale management non ci sarà mai.
Arcelor Mittal: l’ostacolo al cambiamento
Ritengo che il vero ostacolo a qualsiasi processo di innovazione tecnologica è rappresentato da Arcelor Mittal e dal suo management i quali continuano a gestire lo stabilimento siderurgico senza una chiara prospettiva industriale e, soprattutto, senza una pianificazione di interventi strutturali indispensabili a garantire la continuità produttiva degli impianti e il raggiungimento di target ambientali accettabili dal punto di vista sanitario.
Arcelor Mittal, attraverso l’attuale Amministratore delegato, non ha nessuna intenzione di investire su Taranto e sulla siderurgia in Italia e credo che le responsabilità di chi ha gestito la fase di vendita dell’ex Ilva siano sotto gli occhi di tutti. Infatti, il governo italiano non avrebbe dovuto pubblicare un bando di gara internazionale per la vendita dell’ex Ilva semplicemente per il fatto che lo stabilimento siderurgico di Taranto è stato ritenuto dai vari decreti strategico per il Paese. Inoltre, al momento della vendita vi era – e ad oggi nulla è cambiato – un’altra situazione particolarmente complessa legata al sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo del 26 luglio del 2012, che in assenza di un serio intervento pubblico, così come più volte richiesto dalla FIOM CGIL, avrebbe impedito una risoluzione definitiva della vertenza.
Era inevitabile che con quella situazione giudiziaria e con le modalità con cui era costruito il bando di vendita, dove l’offerta economica aveva l’assoluta prevalenza con un valore percentuale del 55% a discapito del piano ambientale, industriale e occupazionale rispettivamente relegati al 15%, si andasse a finire nella condizione di grave crisi in cui versa il gruppo di Acciaierie d’Italia.
L’accordo del 6 settembre del 2018
Il 6 settembre 2018 il sindacato ha siglato un accordo in una situazione di assoluta incertezza e soprattutto con un piano normativo e contrattuale che era già stato definito attraverso accordi parasociali tra la gestione commissariale, Arcelor Mittal e il Ministero competente. Infatti, il sindacato insieme ai lavoratori attraverso delle imponenti mobilitazioni, nonostante ci fossero condizioni contrattuali già definite, è riuscita a traguardare degli importanti risultati in merito al piano occupazionale, ambientale ed industriale.
In quella fase, dopo mesi di trattative, siamo riusciti a scongiurare gli esuberi strutturali previsti dal piano occupazionale presentato da Arcelor Mittal, abbiamo evitato che i lavoratori fossero assunti senza le garanzie previste dall’articolo 18, abbiamo garantito tutti gli istituti contrattuali e abbiamo migliorato il piano ambientale, nonostante fosse già stata approvata l’autorizzazione integrata ambientale con il DPCM del 29 settembre del 2017.
Per il sindacato uno dei punti nodali affinché si potesse sbloccare la lunga trattativa del 6 settembre è stato, inevitabilmente, il reintegro di tutti i lavoratori di Ilva in AS mediante la clausola di salvaguardia occupazionale che continueremo a rivendicare in quanto l’accordo ministeriale è giuridicamente valido ed è l’unico sottoscritto dal sindacato, votato ed approvato dai lavoratori.
Una consapevolezza che evidentemente il governo Conte non ha tenuto in considerazione nel momento in cui ha sottoscritto un accordo parasociale con la multinazionale, lo scorso marzo del 2020, in cui sono stati modificati, secondo quanto appreso da alcune dichiarazioni del governo e dell’amministratore delegato, punti basilari inerenti il piano occupazionale senza che vi fosse nemmeno un minimo confronto con le parti sociali.
Nulla è cambiato in meglio da marzo 2020
Quei pochi incontri ministeriali e i decreti emersi nel corso degli ultimi anni avrebbero dovuto interrompere la scellerata gestione dell’AD Morselli e accelerare l’intervento pubblico attraverso l’ingresso in maggioranza di Invitalia all’interno della compagine di Acciaierie d’Italia e garantire, nell’immediato, il rilancio della produzione di acciaio.
Invece, da marzo del 2020, i governi hanno continuato a rinviare l’ingresso del pubblico nel capitale sociale di ADI, garantendo tuttavia risorse pubbliche, 680 milioni di euro vincolati alla ricapitalizzazione che di fatto al momento non vi è stata, nelle mani di Arcelor Mittal che ha continuato a gestire lo stabilimento producendo record in termini negativi sia dal punto di vista della produzione, degli standard ambientali e dell’utilizzo sproporzionato della cassa integrazione.
Inoltre, il governo “nazionalista”, forte coi deboli e debole coi forti, guidato dalla Meloni ha concesso alla multinazionale franco indiana la possibilità di accedere alla cassa integrazione, attraverso l’ennesimo decreto, estromettendo di fatto il sindacato dalla procedura dell’ammortizzatore sociale attraverso l’esame congiunto, nonostante vi sia stata l’opposizione di tutto il sindacato durante la CIGS in deroga.
È del tutto evidente che questo governo non ha nessuna intenzione di accelerare sulla ripubblicizzazione e, addirittura, con un colpo di mano ha cancellato i finanziamenti previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che sarebbero dovuti servire ad avviare un processo di decarbonizzazione e quindi dare inizio a un nuovo modello produttivo che potesse finalmente garantire un futuro sia dal punto di vista ambientale che occupazionale.
Una fabbrica al collasso
Oggi la fabbrica è al collasso, le manutenzioni sono ridotte al minimo – basti pensare che circa il 50% dei lavoratori impegnati nelle attività manutentive sono costantemente collocati in cassa integrazione – e si continuano a ritardare gli interventi sugli impianti scegliendo sulla base delle urgenze e non su una programmazione mirata per l’efficientamento degli impianti e soprattutto per la sicurezza dei lavoratori. I dirigenti, di fatto, non hanno margini di intervento in quanto, nonostante ci siano molte attività da svolgere a volte anche in assenza di ricambi, devono sottostare ai diktat dell’Amministratore Delegato che indica dei numeri di lavoratori da mettere in cassa integrazione e che impone che siano rispettati anche a scapito di interventi necessari agli impianti di produzione.
A tal proposito la Fiom Cgil ha inoltrato in più occasioni delle richieste di intervento alla gestione commissariale in quanto la stessa ha l’obbligo di verificare trimestralmente le attività di manutenzione e lo stato degli impianti, così come previsto dal contratto di aggiudicazione del giugno del 2017. Tuttavia, le risultanze delle ispezioni richieste dalla Fiom Cgil non sono mai state condivise con le organizzazioni sindacali.
Inoltre, l’assenza di manutenzioni in alcune circostanze ha determinato , cosi come dimostrato dai dati di Arpa Puglia, un aumento degli inquinanti. Infatti, come Fiom abbiamo in più occasioni denunciato che non serve esclusivamente l’applicazione delle prescrizioni previste dall’AIA per abbattere le emissioni inquinanti se non si accosta un piano di manutenzioni che impedisca la fuoriuscita di emissioni diffuse e fuggitive in alcune aree sottoposte a sequestro giudiziario.
Serve una svolta
Pertanto, riteniamo che il Governo Meloni non abbia più scuse: la scadenza del maggio del 2024 per l’ingresso del pubblico nel capitale sociale di ADI è alle porte e serve da subito attivare un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali affinché si possa finalmente tornare a parlare di piano industriale, ambientale ed occupazionale e non di continue chiusure di impianti.
Dal 2018 ad oggi di fatto la situazione è peggiorata e l’assenza di una chiara prospettiva sul futuro dell’ ex Ilva di politiche industriali da parte dei governi che si sono susseguiti negli anni ha prodotto soltanto dei danni alla siderurgia e ai lavoratori e cittadini della provincia ionica.
È indispensabile dare una sterzata all’attuale gestione della fabbrica ripartendo dall’accordo de 6 settembre del 2018 e il sindacato, in assenza di risposte, non rimarrà a guardare e si renderà protagonista, così come fatto in altre occasioni, del cambiamento tanto atteso dai lavoratori e dalla città di Taranto.
Serve una svolta! Il tempo degli slogan e dei rinvii è finito e l’unica soluzione per uscire da questa fase di impasse rimane l’intervento pubblico con un chiaro indirizzo di innovazione tecnologica e di rilancio della produzione di acciaio.
Francesco Brigati
Segretario Generale Fiom Cgil Taranto